Il destino degli ultimi cinque quesiti referendari era già scritto all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale – nel gennaio 2025 – che aveva ritenuto inammissibile la richiesta di referendum volto all’abolizione della cosiddetta autonomia differenziata imposta dal governo Meloni al paese, lasciando gli altri alla deriva. Quella deriva che si è concretizzata con il risultato, dal significato inequivocabile, di lunedì 9.
La polemica politica non ha tardato a svilupparsi, come è ovvio che sia. Da parte della destra e del suo governo era più che scontata anche nei suoi toni più sguaiati – anche se forse dovrebbero prendere in considerazione il fatto che i 12 milioni e passa di Sì equivalgono di fatto ai 12,5 milioni che nelle passate elezioni hanno portato Meloni a palazzo Chigi.
Era scontata anche da parte di quelli che si definiscono ‘riformisti’ alla Gori e Picierno o ‘liberal-liberisti’ alla Renzi e Calenda, subito pronti a scatenarsi contro l’attuale direzione del Partito Democratico, colpevole, a loro dire, di troppa freddezza sul ‘riarmo’, sul sostegno alle guerre in corso sia da parte ucraina che israeliana e soprattutto di subalternità alle politiche di Landini e di Conte. Colpevole, soprattutto, di continuare a sviluppare, con il cosiddetto ‘campo largo’, un progetto di coalizione con il Movimento 5 Stelle e l’Alleanza Verdi Sinistra, senza averne il completo controllo per costringerlo a scelte più ‘responsabili’ e più in linea con i centristi europei. Non a caso destra e riformisti si sono subito sgolati proclamando la morte del ‘campo largo’ e chiedendo a gran voce le dimissioni di Landini dalla guida della CGIL.
Ovviamente né l’una né l’altra possibilità si daranno sia perché non ci sono alternative a Landini a un anno del rinnovo della carica e sia perché i numeri, abilmente manovrati, dei Sì fanno gioco a Schlein nei confronti della minoranza interna. Le dichiarazioni di entrambi, come quelle di Conte, Bonelli e Fratoianni, vanno in tutt’altra direzione, forti anche dei buoni risultati alle elezioni amministrative, a Genova e Taranto soprattutto: quella del rafforzamento del ‘campo largo’, con la promessa di un maggior impegno in difesa di lavoratori e lavoratrici.
Certo è che se dobbiamo dare retta ad uno degli slogan ‘forti’ della campagna della CGIL – “Il voto è la tua lotta” – questo è un impegno da i cui risultati bisognerà guardarsi ben benino.
Basta rivolgersi all’indietro, e neanche di molto, per accorgersi di quanto questa sinistra di parlamento e questo sindacato di Stato hanno fatto per lavoratori e lavoratrici. Dal pacchetto Treu del 1997 (governo Prodi di centro sinistra) che aprì la strada alla precarizzazione del lavoro al Jobs Act e all’abolizione dell’articolo 18 sui licenziamenti (governo Renzi di centro sinistra), per ricordare solo i principali, il Partito Democratico è stato alla testa di un processo neo liberista di privatizzazioni e di tagli che ha consolidato privilegi e posizioni di forza di un ceto politico e burocratico, abbandonando territori e il mondo del lavoro alla destra.
Con i quesiti referendari sia la CGIL che l’attuale direzione del PD hanno voluto dare un segnale di inversione di tendenza rispetto alle scelte precedenti, sul terreno che è loro più consono, quello della scheda elettorale piuttosto che della lotta sociale, stante anche la oggettiva debolezza conflittuale del loro corpo centrale di riferimento: appellarsi alla base per forzare una situazione di stallo, questo lo scopo. La raccolta firme, i banchetti, i comizi, tutto è servito per risollevare la propria base dallo stato di passività nel quale le ‘loro’ scelte l’hanno confinata.
Non è bastato; al di là delle frasi di consolazione di Schlein e dei suoi, la sconfitta politica è stata secca: in nessuna grande città, in nessuna regione, il quorum ha raggiunto il 50% degli aventi diritto. E la percentuale raggiunta (30,6%) sarebbe stata ancora più risicata se non avessero partecipato al voto i molti e le molte che si astengono, per scelta, alle elezioni politiche e che questa volta hanno deciso di soprassedere in previsione di una sonora sconfitta che avrebbe avuto risultati ancora più devastanti sulla classe lavoratrice e sui numerosi immigrati e immigrate residenti nel nostro paese. A questo proposito il 65% di Sì raccolti dal quesito sulla cittadinanza merita una sottolineatura dovuta al fatto che molto del clima di diffidenza che esiste nel paese sul tema dell’immigrazione è dovuta non solo alla destra con Salvini in pole position, ma anche alle politiche del PD e del M5S. Non dimentichiamo il governo giallo-verde, così come non dimentichiamo il pacchetto Minniti-Orlando e tutto quello che ne è seguito.
Una volta di più si dimostra che l’istituto referendario per come è stato istituito, se ha dato dei risultati significativi, ancorché discutibili, sui temi dei diritti civili (divorzio, depenalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza) in tempi di grandi mobilitazioni di piazza e di aspro conflitto sociale, negli ultimi anni ha evidenziato tutti i suoi limiti, insiti nella sua progettazione originaria. Tanto più sui temi del lavoro, affidare ad un parere collettivo, per sua natura interclassista, la decisione su questioni che tra l’altro sono, per chi non le vive, di difficile comprensione da un punto di vista tecnico, vuol dire consegnarsi alla sconfitta. Così è stato nel 1985 per il referendum abrogativo della legge sulla scala mobile dove si raggiunse il quorum ma si perse rovinosamente e nel 2003 per quello contro l’abolizione dell’articolo 18 con un’affluenza che si fermò al 25,5%.
Da sottolineare che è dal 1995 che nessun referendum popolare ha raggiunto il quorum tranne quello del 2011 sul nucleare e sul mantenimento pubblico dell’acqua contro la privatizzazione che vinse per essere poi vanificato dalle manovre di palazzo. La stessa cosa sta accadendo per la ripresa del nucleare in Italia, alla faccia dei referendum del 2011 e soprattutto del 1987 svolto e vinto dopo il disastro della centrale di Chernobyl, sull’onda di grandi manifestazioni popolari e di occupazioni delle centrali allora attive nel paese.
Nulla di nuovo sotto il sole. Non siamo mai stati promotori di alcun referendum e anzi abbiamo sempre messo in guardia sull’uso di un mezzo che una volta di più ha la funzione di distogliere la popolazione da quelli che sono i veri strumenti di espressione della volontà collettiva: l’autogestione e l’azione non delegata. Sostituire il conflitto con la scheda non solo è una dimostrazione di debolezza sul piano della lotta ma è soprattutto un regalo al governo in carica e al padronato.
Si tratta ora di impedire che il senso di vittoria che attraversa le truppe governative non si trasformi in un attacco ancora più forsennato alle condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne e del popolo immigrato. Tocca anche a noi, agli avventuristi – come ci hanno spesso e volentieri definiti – rimediare ai danni che gli avventuristi del referendum hanno provocato. Rimbocchiamoci le maniche.
Massimo Varengo